Tanzan risponde: “io ho lasciato la ragazza là….tu la stai ancora portando in braccio”.
Molto spesso ci comportiamo come il secondo monaco, che, non riuscendo a vivere consapevolmente il “qui ed ora”, si porta dietro i pesi delle proprie proiezioni.
Che cos’è la Gestalt?
R: La Gestalt è una delle cose della vita che è più semplice fare piuttosto che spiegare. Nello stesso modo in cui per Peter Pan è più facile volare che insegnare come si fa.
Definire cos’è la Gestalt vuol dire definire cosa fa e a cosa tende, e in particolare mi piace citare la descrizione che ne dà Petruska Clarkson: Lo scopo dell’approccio della Gestalt è di far scoprire, esplorare e sperimentare alla persona la sua propria forma, il suo modello e la sua interezza. L’analisi può costituire una parte del processo, ma lo scopo della Gestalt è l’integrazione di tutte le parti disparate. In questo modo le persone possono permettersi di diventare quello che già sono e quello che potenzialmente possono diventare. (“Gestalt Counselling” Sovera editrice 1989)
APPROFONDIMENTO
Quale il background teorico di riferimento? collocamento culturale storico geografico
Quale il background teorico di riferimento?
Già la parola scelta a denominare questo approccio è praticamente intraducibile: Gestalt. È un termine tedesco che possiamo avvicinare al concetto di figura, di interezza o meglio ancora di configurazione. I primi a usare questo termine furono gli Psicologi della Forma, nel momento in cui studiarono e poi definirono i fattori di organizzazione del campo percettivo. Studiosi tedeschi quali Wertheimer, Goldstein e Köhler si dedicarono intorno agli anni 1920-1940 alla ricerca dei processi percettivi, soprattutto visivi, individuando come l’uomo, nell’organizzare le informazioni che riceve da tutto il campo percettivo, segua alcuni presupposti quali:
- la vicinanza
- la somiglianza
- la continuità di direzione
- la buona “gestalt” (o buona forma)
- l’esperienza passata.
Anziché approfondire questi concetti (impresa lunga e fuori tema) vediamoli all’azione che è anche più “gestaltico”. Se noi dovessimo definire la figura qui sotto.
(fig.1)
Diremmo che è una figura formata da un ovale con un quadrato.
(fig.2)
Difficilmente verrebbe in mente di definirlo in altri modi possibili
(fig.3)
Penso sia immediato “vedere” come i presupposti della percezione entrano in azione in modo congiunto per dare una forma, una gestalt armonica in cui le parti “si appartengono” e “si richiedono” reciprocamente.
Questi meccanismi di dare una forma e quindi chiudere la gestalt, come si dice in gergo, funzionano non solo nella percezione visiva, ma anche per leggere e dare significato a comportamenti, azioni, emozioni, bisogni, relazioni tra persone o sistemi ecc…In questo senso si può leggere una connessione tra la Gestalt, come approccio al counselling e alla terapia, e la Psicologia della Forma o Psicologia della Gestalt; ma in realtà il panorama culturale in cui nasce la Gestalt e l’atmosfera che aspira il suo importante e istrionico fondatore sono troppo ricchi e fervidi per poter ridurre a questo solo collegamento.
Frederick Salomon Perls (confidenzialmente Fritz) è riconosciuto il fondatore della terapia gestaltica, non solo relativamente l’impostazione teorica e metodologica, ma anche per il modo eclettico e versatile con cui ha creato e fatto evolvere l’approccio, e per la sua vita intensa: entrambi aspetti condotti molto gestalticamente.
Perls, berlinese, nasce nel 1983, e subisce sia in famiglia da parte del padre che nelle comunità di riferimento, ebrea e tedesca, atteggiamenti di rifiuto che condizioneranno il suo carattere e la sua filosofia di vita. Laureatosi in medicina rimane in Europa fino ai 40 anni, tra Berlino, Francoforte e Vienna, esercitando come neuropsichiatria e approfondendo già in modo diversificato la sua formazione: viene affascinato dalla psicoanalisi (si forma con Reich relativamente gli approcci corporei, ha come terapeuta una psicoanalista quale Karen Horney, incontra Freud,), ma frequenta anche i seminari di Goldstein. Oltre alla psicologia a caratterizzare la formazione del fondatore della Gestalt, e quindi la cornice culturale dell’approccio terapeutico, è tutto il dibattito filosofico tedesco del tempo: la fenomenologia e l’esistenzialismo. Perls fugge poi dalla Germania nazista stabilendosi per 12 anni come psicanalista a Johannesburg nell’Africa del Sud. Ma l’agiatezza e la relativa tranquillità di questi anni stancano l’animo irrequieto di Perls che lo spinge a ricercare nuove esperienze negli Stati Uniti. Dopo i primi tempi di difficoltà l’incontro con Erich Fromm lo aiuta ad inserirsi nell’ambiente e a portarlo nel 1951 a pubblicare il libro “Teoria e Pratica della Terapia della Gestalt” con H. F. Hefferline (professore di psicologia) e P. Goodman (letterato) che segna il reale e ufficiale ingresso dell’approccio nello scenario terapeutico del tempo.
Da questo momento comincia per Perls l’instancabile attività di diffusione della Gestalt in tutto il mondo, che lo porta anche a conoscere nuovi metodi terapeutici ed a integrarli innovando continuamente il suo approccio. Oltre a condurre seminari in tutto il mondo Perls fonda Istituti di Terapia Gestaltica a New York e Cleveland, come già aveva fondato in Sud Africa l’Istituto di Psicoanalisi. Famosi sono anche gli ultimi istituti, con carattere più di comunità a Esalen (California) e sul Lago Cowichan (Canada). Muore famoso, ma molto malato, in un ospedale della California dopo aver apostrofato un’infermiera che gli diceva di sdraiarsi, con un coerente “non dirmi cosa devo fare!”
Da ciò è emerso come la Gestalt sia molto figlia del suo tempo e composta da numerosi contributi, ècome se applicasse i presupposti di Buona Forma a sé stessa creando un approccio in cui, in modo armonico, le parti “si appartengono” e “si richiedono” reciprocamente.
Solo negli anni ’50, grazie alla pubblicazione del primo libro di Perls “Teoria e pratica della terapia della Gestalt”, si parla ufficialmente di Gestalt.
Tuttavia, già negli anni ’30, Perls elaborava tale teoria, facendo confluire in essa diversi approcci e diverse linee guida: filosofiche e psicoterapeutiche.
Gli approcci gestaltici vengono infatti definiti gli approcci della terza via, perché stanno a metà tra quelli psicoanalitici da una parte e quelli comportamentisti dall’altra.
Quelli psicoanalitici sono più orientati a trovare la spiegazione del presente nel passato, in una continuità storica che non necessariamente evolve nel concetto di cambiamento, a differenza del pensiero gestaltico costantemente teso al miglioramento dell’individuo.
La seconda via è invece percorsa dal comportamentismo, dagli studi pavovliani, per cui vi è sempre una stretta correlazione tra uno stimolo che proviene dall’esterno e la risposta che ad esso causalmente e linearmente ne consegue.
La Gestalt, definita la terza via, non prende spunto soltanto dalle prime due, ma accoglie in sé anche tendenze filosofiche; fenomenologiche ed esistenziali.
Queste correnti filosofiche incidono sulla Terapia della Gestalt sia a livello concettuale teorico che a livello pratico e metodologico.
La fenomenologia sostiene la concezione di una filosofia come “scienza rigorosa” che studia la possibilità per l’uomo di prendere consapevolezza del reale, evitando le insidie di procedimenti privi di metodo, ma anzi caratterizzati da prassi interpretative. Famoso è l’assioma fenomenologico della “sospensione del giudizio” e della sovranità della descrizione del fenomeno a fronte di una sua interpretazione. È abbastanza immediata la connessione con uno dei principali assiomi della psicoanalisi corrente, e della relativa pratica terapeutica, al contrario basata sull’interpretazione.
In Germania dalla fenomenologia si sviluppa poi l’esistenzialismo, che focalizza la sua attenzione sull’individuo, andando oltre il dover essere o la continua tensione all’ideale delle filosofie precedenti. L’esistenzialismo sostiene la supremazia dell’esistenza a fronte dell’essenza, e riporta la responsabilità all’individuo: se al di sopra dell’individuo non ci sono norme o valori universali in cui riconoscersi (l’ideale, l’essenza) allora è l’uomo nella sua soggettività a scegliere e decidere sulla sua vita, e per una società migliore. Per gli esistenzialisti non esiste un’individualità già compiuta, ma ci identifichiamo con il progetto di ciò che vogliamo essere. La psicoanalisi non si prefiggeva obiettivi di cambiamento, protesa com’era sui collegamenti causali tra il presente e il passato. La Gestalt invece è continuamente centrata sulla responsabile consapevolezza del presente dell’individuo in un’ottica di miglioramento autodeterminato e responsabile.
Perls lavora quindi in un contesto che risente dell’approccio freudiano, che prende spunto dagli studi comportamentisti ma anche dai primi approcci sul corpo, mutuando dalla fenomenologia questioni di metodo “descrittivo” e dall’esistenzialismo la centratura sull’individuo e sulla presa di responsabilità del suo stato.
Questo a grandi linee è il panorama culturale degli anni ’30-‘40 in cui si inserisce Perls e che determina lo sviluppo della Gestalt.
È difficile parlare di Gestalt, non solo per questa varietà di aspetti che in essa confluiscono, ma anche perché la logica del parlare e descrivere, che mette in ordine cronologico e in successione lineare gli eventi presenti nello sfondo, è contraria ed opposta alla logica gestaltica, per cui vi è un’interdipendenza continua tra il qui ed ora nel rapporto figura-sfondo.
Cerchiamo di chiarire meglio il concetto di figura-sfondo.
La Gestalt lavora con tutti gli aspetti presenti nel contesto, lo sfondo, per poi decidere di farne emergere uno, la figura.
In altre parole, in una determinata situazione presa in un arco temporale ben delimitato (ossia il presente da cui: qui ed ora) agiscono molti elementi, che rimangono tutti sullo sfondo e solo uno si eleva in primo piano, come figura.
Parlare significa seguire una logica lineare, che tende a dare una successione cronologica agli eventi, agire una Gestalt significa invece considerare il tutt’uno, l’insieme da cui emerge la figura.
Infatti mentre Freud individua una struttura psicologica suddivisa in IO – ES e SUPER IO, Perls va oltre, affermando che nell’individuo non esistono distinti il principio di realtà (io), il principio pulsionale (es) ed il principio normativo (super io), ma il qui ed ora, dove tutto si agisce e dove si apre all’individuo la strada della consapevolezza.
Anche la Gestalt, quindi, come tutte le teorie psicologiche, tende alla ricerca della consapevolezza, ognuna secondo i propri principi teorici.
La psicoanalisi freudiana lavora sulla consapevolezza rispetto al passato.
Gli approcci corporei pervengono alla consapevolezza dal recupero delle sensazioni fisiche.
La teoria dell’ascolto ricerca la consapevolezza attraverso l’attenzione rivolta all’altro, nella sua relazione con il sé.
Per la Gestalt invece il percorso verso la consapevolezza passa attraverso l’assunzione della completa responsabilità di ciò che si sente e si agisce nel qui ed ora, nel contatto interdipendente tra sé e l’ambiente.
A questo proposito già Lewin (1935) aveva influenzato Perls con la teoria dell’incidenza del campo. Kurt Lewin psicologo, anch’egli tedesco e coetaneo di Perls, operò in Germania dove fondò la Teoria del Campo in psicologia.
Come per Perls l’avvento del nazismo fece emigrare Lewin negli Stati Uniti, orientando la sua ricerca sperimentale dai temi della psicologia dinamica alla psicologia sociale e alla dinamica di gruppo.
Lewin affermando l’impossibilità di scindere il singolo dall’ambiente in cui egli si muove, metteva le basi del rapporto figura-sfondo; parlando poi di presente psicologico introduceva anche il concetto qui ed ora. Tra figura-sfondo e qui-ed-ora sussiste un’interazione continua.
La Gestalt, allo stesso modo, tende a cogliere l’individuo nel suo sentire, percepire ed agire nel qui ed ora come appartenente ad un determinato contesto.
Gli psicologi della Gestalt, studiando il funzionamento percettivo umano, hanno osservato come l’individuo, nel suo atto di percezione, ha la necessità di mettere a fuoco qualcosa, di recuperare una figura, lasciando sullo sfondo tutto il resto.
Facciamo un esempio con una famosa figura gestaltica, come quella del vaso e dei due profili
(fig.4)
Ognuno di noi ha ora sperimentato il bisogno percettivo di mettere a fuoco una sola figura, lasciando sullo sfondo l’altra.
La coopresenza delle due figure comporterebbe un ibrido, o vedo il vaso o vedo i due profili.
Questo funzionamento percettivo, unito poi alla centratura esistenziale sull’individuo, alla presa di responsabilità di ciò che, nel qui ed ora, l’individuo sente, percepisce ed agisce, apre la strada verso un contatto profondo con il proprio mondo interiore, in cui identificare bisogni e sensazioni.
Un conto, tuttavia, è recuperare l’interezza di una figura percettiva fisica, altra cosa è recuperare, o meglio entrare in contatto con un proprio bisogno.
L’individuo è in un contatto di interdipendenza con l’ambiente interno e l’ambiente esterno, da cui prende vita un circuito gestaltico finalizzato alla consapevolezza e al benessere dell’individuo. Esso parte da una fase di contatto-riconoscimento di un proprio bisogno, che il più delle volte è dettato da una mancanza, a cui segue poi un processo di attivazione, uno stato di soddisfacimento ed infine uno di ritiro, da cui emerge poi una nuova mancanza.
Tale circuito può concludersi in modo sano e completo, come può divenire un percorso patologico e disfunzionale.
Se l’individuo avrà consapevolezza del proprio bisogno e si attiverà in modo adeguato per soddisfarlo, godendo poi del ritiro, di quel momento, di quello stato di vuoto (fertile per la Gestalt), in cui la momentanea assenza di bisogni si lega all’attesa di una seconda figura, una seconda sensazione, allora si troverà in una Gestalt sana.
Ma può capitare che, non riconoscendo un preciso bisogno, si ricorra a più soluzioni, che a loro volta impediscono un reale soddisfacimento, oppure che l’individuo, non concedendosi quella fase di ritiro fertile e consapevole, sia coinvolto in un succedersi senza sosta di bisogni, attivazioni e parziali soddisfacimenti.
I bisogni di cui parla la Gestalt non sono mai intesi in termini di cosa posso o devo fare, bensì in termini di cosa sento, e solo in un secondo momento quale può essere la soluzione per raggiungere uno stato di benessere.
Mi alzo dal letto e sento il bisogno di bere, a questa mancanza, data dal senso di sete, segue un’attivazione immediata, bere un bicchier d’acqua. Segue poi un senso di soddisfacimento, un completo stato di benessere, in cui mi ritiro fino all’emergere di un nuovo bisogno.
Spesso invece noi associamo in modo rigido il bisogno con la sua azione per soddisfarlo, dando vita a Gestalt disfunzionali, in cui o non riconosciamo un bisogno, o, pur riconoscendolo, forniamo soluzioni altre, oppure non godiamo della fase del ritiro, aprendo continuamente nuovi circuiti.
Tipico è l’esempio del fumare, dove spesso il bisogno di fumare in realtà è già un soddisfare un altro bisogno, mentre accendere e fumare la sigaretta è la soluzione che si è trovata. Il bisogno può essere uno stato di disagio, per cui fumare è la soluzione per superarlo; ma si arriva a confondere bisogno con soddisfacimento.
Fino a quando si parla di sensazioni fisiche facilmente riconoscibili, il circuito gestaltico nasce e si sviluppa linearmente, ve ne sono altri che richiedono un maggiore e consapevole contatto con se stessi.
È opportuno inoltre specificare che il contatto individuo-ambiente esterno, è solo uno dei contatti possibili, l’individuo il più delle volte è in contatto con il suo mondo interiore con i suoi pensieri, le sue sensazioni ecc…
Facciamo degli esempi pratici.
Sono in ufficio, lo sfondo esterno nel quale mi muovo è popolato da molti elementi, telefoni che squillano, colleghe che parlano tra loro, ma riesco bene a tenere come figura principale cui dedicarmi le pratiche da sbrigare sul mio tavolo.
Ad un certo punto, però, emerge un’altra figura improvvisa: penso che stamattina, accompagnando mio figlio a scuola, non gli ho dato le scarpe da ginnastica.
Il circuito gestaltico mi spinge quindi a riconoscere tra tutto lo sfondo quello che diventerà figura per me più significativa, per agire poi di conseguenza.
Se la figura prevalente, ad esempio, è quella di mio figlio a scuola, e mi fa tenere tutto il resto sullo sfondo (tra cui le pratiche da sbrigare) potrò scegliere di uscire dall’ufficio e chiudere la figura portando le scarpe; in seguito riuscirò così ad entrare in contatto con il qui ed ora del momento (l’ufficio e il lavoro). Questa è un’attivazione concreta ma forse poco praticabile, ma soprattutto non è la sola. Ci può essere un soddisfacimento ad un altro livello, come chiudere la Gestalt dicendosi che “Bene: la prossima volta sarà mio figlio che si ricorderà delle scarpe, se oggi non farà ginnastica”. Questo può permettere di chiudere una Gestalt e permettere ad altre figure di poter emergere, ma soprattutto di non averne troppe contemporaneamente: sarebbe come vedere i profili ed il vaso di figura 4.
Infatti se in ufficio penso a mio figlio a scuola, non vivo il qui ed ora del momento, non mi concentro su quello che c’è, bensì sono in contatto con un là e ora. Allo stesso modo posso essere in contatto con un qui e poi, pensando, ad esempio, che tra una settimana quando mio figlio tornerà a scuola gli metterò gli stivali dentro lo zaino per ricordarmi: sono in ufficio ma proiettato verso una situazione futura. Spesso ci troviamo in situazioni simili alle ultime due. Penso che ognuno possa tradurre per sé questo semplice esempio come modello per riconoscere quando ci si trovi in Gestalt incompiute
La coesistenza di più figure come può incidere sulle attività lavorative non certo positivamente.
Rendersi consapevole di tutto questo può essere molto utile non solo a livello individuale ma anche e soprattutto aziendale, dove spesso si confonde il bisogno in termini di mancanza con il bisogno in termini di soluzione, dove vi sono gruppi che non riescono a definire una precisa figura, capi che non sanno focalizzare la propria attenzione su una reale emergenza, o la cui azione, disturbata da troppe variabili, si delinea come inefficace ed inconcludente.
Quali elementi del modello vengono utilizzati nella formazione aziendale sia da un punto di vista contenutistico che metodologico? per quali esigenze problemi aree tematiche?
Quali elementi del modello vengono utilizzati nella formazione aziendale sia da un punto di vista contenutistico che metodologico? per quali esigenze
Lo stesso Ciclo della gestalt bene si applica al contesto aziendale, dove spesso si lavora in termini di simultaneità tra più figure. Ad esempio scriviamo al computer e parliamo contemporaneamente al telefono.
In questi casi una delle due figure dovrebbe cadere sullo sfondo, affinché almeno una si concluda in modo completo. Se così non fosse, appena una delle due giunge a conclusione, ci accorgeremo del grado di incompletezza di entrambe. Ci accorgeremo, ad esempio, che durante la telefonata ci siamo scordati di fornire alcune informazioni, oppure che al computer abbiamo fatto degli errori di battitura.
Del resto la velocità del mondo attuale ci impone di portare avanti più Gestalt contemporaneamente, senza però raggiungere, una volta concluse, un soddisfacimento completo.
Al di là della possibile compresenza di più figure, le Gestalt più “nocive” sono quelle che rimangono incompiute e che inevitabilmente portano l’individuo ad uno stato di malessere.
Se siamo alle prese con un Cliente difficile, spesso preferiamo dargli ragione, perché in questo modo chiudiamo la Gestalt. L’importante è che la figura intraprenda la via della completezza.
Diverso è quando ad un conflitto, ad esempio con un collega, non è stata data la possibilità di esprimersi o chiarirsi, o ci si limita a frasi indirette o allusive. Penso che molti abbiano sperimentato queste Gestalt incompiute.
Il più delle volte la metodologia gestaltica si traduce in aula in attività esperienziali, ossia nella far scaturire situazioni, occasioni di relazione, stimoli con forti evocazioni alle situazioni professionali problematiche, messi in atto per far vivere alle persone in aula circostanze “sensibili e sensibilizzanti”, e da lì partire per entrare in contatto con le sensazioni che queste esperienze provocano e agire di conseguenza.
Le attività esperienziali possono anche essere esperienze critiche che gli stessi partecipanti portano in aula. Con un gruppo di persone disponibili e consapevoli, la drammatizzazione raggiunge l’apice della sua criticità, nel momento in cui l’individuo, sotto la guida del docente, entra in contatto con quello che sente, con le sue emozioni e con i suoi bisogni.
Questo però non sempre si realizza facilmente, spesso il docente deve distinguere e far distinguere tra le descrizioni fenomenologiche delle proprie sensazioni e le interpretazioni razionali, o le distorsioni, o le proiezioni.
Le persone tendono a razionalizzare ed invece di esprimere le proprie sensazioni, con espressioni del tipo: “sento rabbia, sento incertezza, ecc…”, tendono ad evitare il contatto, rimanendo in superficie e celandosi dietro frasi del tipo: “sento che potrei migliorare, sento che le cose non vanno bene, sento che l’altro non è contento di me…”. Cose impossibili da sentire, semplicemente si pensano o si ipotizzano. Ma se il Ciclo della Gestalt parte dal “sentire incertezza” prende un percorso, se parte da “l’altro non è contento di me” prende tutt’altro percorso. Nel primo caso posso di conseguenza volere chiarezza e cercare strumenti, approfondimenti, informazioni. Nel secondo caso quante cose posso volere e fare di conseguenza? Che “l’altro sia contento di me”, più che una sensazione è un volere, ma è fuori dalla mia responsabilità: o meglio è un effetto di una mia azione.
Descrivere il fenomeno interno, descrivere la sensazione e non ipotesi su chi ce le provoca; e centrarsi sull’individuo, sulla sua esistenza, sulla responsabilità del volere e del decidere (cosa voglio fare, cosa decido di volere e di fare)
Il mezzo con cui il docente invita il partecipante ad fare esperienza del proprio Ciclo della Gestalt è il Continuum di Consapevolezza, ossia un percorso di continuo contatto che richiede inizialmente il riconoscimento del vero bisogno e della vera emozione del momento: “cosa senti” nel “qui ed ora”.
Le persone innalzano spesso delle resistenze, con frasi del tipo: “non so quello che sento” evitando così il contatto con il sentire, nel qui ed ora, la figura che emerge: che in genere è un’emozione che si percepisce tra uno sfondo di sensazioni, giudizi, convinzioni, idee preconcette, echi e dialoghi interni.
Infatti il sapere è una funzione cognitiva che, in quanto tale, non ha niente a che fare con le emozioni. È come se volessimo che l’emisfero sinistro funzioni come quello destro: mentre l’emisfero sinistro sa, quello destro scopre sentendo. La matrice fenomenologia della gestalt permette poi di descrivere il fenomeno che pian piano si scopre.
Il docente che, secondo quest’ottica si delinea sempre più come un facilitatore, lavora proprio su questa resistenza, che impedisce all’individuo un contatto autentico con il proprio universo emotivo. L’obiettivo è quello di rendere la persona responsabile del suo essere lì, in quel momento, di essere parte dell’interazione tra individuo-ambiente, nel pieno contatto emotivo.
Una volta che la persona ha ben individuato la figura della propria sensazione, la domanda che segue nel continnum di consapevolezza è la seguente: “Cosa voglio rispetto a ciò che sento?” E qui fa eco la matrice esistenziale; si centra l’attenzione e si rende esplicita l’intenzione facendo assumere al soggetto la piena responsabilità di questa intenzione, ma anche la piena consapevolezza. Spesso le persone sono talmente tese alla ricerca di una soluzione che non si interrogano su ciò che vogliono rispetto quella situazione e le sensazioni che essa evoca. Rendersi consapevoli della sensazione che una situazione mi provoca, aumenta la potenzialità della propria responsabilità di scelta. Un conto è chiedersi “Cosa voglio da questa situazione?” e un altro è chiedersi “Cosa voglio rispetto a ciò che sento?” Spesso le persone sono prima disorientate da questo nuovo rapporto figura-sfondo che si prefigura dentro e fuori di sé, poi scoprono di volere cose diverse da quelle che avevano creduto fino ad allora. Le persone entrano in aula dicendo “in questi casi cosa si deve fare???”, mentre la proposta è “rispetto quello che sento cosa voglio?”
Poi, finalmente, si passa all’azione, quando la persona ha messo a fuoco la sua intenzione il passo successivo è chiedere “Quale sarà l’azione concreta in grado di soddisfare tale bisogno?”
La soluzione individuata, se nata dal diretto contatto con il proprio sentire, e coerente alla decisione di volontà, costituirà un atto creativo.
Tutte le volte, infatti, in cui si è in contatto con le proprie sensazioni, disponiamo di maggiore creatività. L’atto creativo è la naturale conseguenza della nostra autenticità emotiva
Facciamo un esempio pratico, comune alle mamme: quando sono con mio figlio in luoghi come l’ufficio postale ad attendere in fila il turno, in genere lui si stanca e comincia a fare tutto ciò che non andrebbe fatto: prende i moduli e li butta, salta, urla. Di questo passo anch’io mi stanco e attacco con ricordare le regole sociali del tipo “questo non si fa…”, “stai buono…” ecc..: non è proprio l’azione coerente al mio sentire. Se invece entro in contatto con la mia stanchezza, o forse noia, e decido di volere qualcosa di più divertente, posso scoprire di giocare con lui, evitando tra l’altro che combini qualche guaio: allora posso fargli il solletico, fare le facce strane che lo fanno ridere…
Torniamo ora in azienda ed immaginiamo di essere un venditore alle prese con un Cliente che avanza lamentele giustificate su un prodotto.
Se il venditore fosse in contatto autentico con la propria sensazione, che, al pari del Cliente, potrebbe essere di insoddisfazione del prodotto, potrebbe fare qualcosa di creativo, in grado di rompere gli schemi, per uscire dall’impasse, come, ad esempio, farlo sedere comodamente e lasciarlo sfogare, interessandosi delle specifiche disfunzioni che il prodotto ha comportato al cliente….
Qualora invece io non sia in contatto con la mia reale sensazione, ma piuttosto con un presupposto dato dall’azienda o da un dover essere, paradossalmente la relazione con il cliente ne risente negativamente. Questo in genere porta l’addetto a sostenere in modo poco convinto le qualità da manuale del prodotto, irritando il cliente e disattendendo alle stesse attese aziendali.
Dopo l’attivazione creativa e la fase di soddisfacimento e ritiro, all’interno del continuum di consapevolezza, si affaccia una nuova domanda: “cosa provo rispetto a ciò che ho fatto?”.
L’individuo cerca a questo punto una verifica del suo comportamento, valuta l’eco che la propria azione ha avuto su sé e sul contesto, osservando così lo schiudersi di una nuova figura.
L’eco della propria azione sarà evocata dalla reazione del Cliente, da cui partirà una nuova Gestalt ed un nuovo continuum di consapevolezza.
Penso sia difficile per una persona sperimentare il Continuum di Consapevolezza in un’aula di formazione?
Difficile qualifica più gli aspetti cognitivi e razionali, userei più aggettivi quali intenso, complesso, imbarazzante, a volte disorientante…
Per quanto detto fino ad ora è facilmente comprensibile perché la Gestalt trovi la sua applicazione più funzionale in aule in cui le persone non si conoscono, dove la disponibilità a mettersi in gioco da parte dei partecipanti è maggiore. O almeno questa è la mia esperienza.
Poniamo il caso, come spesso accade, di trattare il tema dell’aggressività o del conflitto.
Oltre a trattare il tema sul piano cognitivo, spiegando quali siano le situazioni aggressive e quali empasse creino, è importante rendere vera ed attualizzare una precisa figura.
Attività esperienziali possono permettere di attualizzare una situazione critica che ha l’aggressività come figura nel qui ed ora, su cui i partecipanti possono attivare il continuum di consapevolezza.
Solo raramente si toccano punte emotive tanto forti, questo perché il docente/facilitatore passo passo rimanda alla responsabilità del soggetto, sia nel sentire che nel progetto d’azione.
Di solito lo si fa in casi particolari: con figure dirigenziali all’interno di un percorso di sviluppo e crescita personale o con figure che quotidianamente sono inserite in contesti di relazioni d’aiuto.
Mi ricordo che questo tipo di lavoro si è rivelato molto utile nel caso di una infermiera che, pur essendo molto motivata e apprezzata nelle sue mansioni in una comunità di tossicodipendenti, non riusciva a mostrare la sua proattività, a prender parola o portare avanti le proprie idee all’interno della sua equipe di lavoro (medici, psicologi, assistenti sociali ecc…). Abbiamo quindi deciso di lavorare su questa sua titubanza, attualizzando nel qui ed ora il suo tema, quello di non riuscire a essere incisiva e propositiva. All’interno del gruppo d’aula si è poi notato che, nel momento in cui altri prendevano la parola, lei si ammutoliva e restava in disparte. Anche quando riusciva a prender parola apriva così tante parentesi, da risultare inconcludente ed evasiva agli occhi dei suoi interlocutori. Perché questa continua tensione a non chiudere mai un discorso?
Il contatto autentico con il proprio sentire l’ha guidata a riconoscere il suo perenne timore di ferire gli altri.
Timore che la induceva a fare sempre tante premesse, a non chiudere definitivamente le gestalt, a non riuscire ad essere incisiva e concludente.
In quanto formatore-conduttore ho quindi cercato di direzionarla nel chiudere le parentesi e portare a termine i discorsi, attualizzando nel gruppo ciò che lei quotidianamente viveva con la sua equipe di lavoro.
Nel qui ed ora dell’aula, la corsista ha sperimentato ad aprire e chiudere un discorso e quindi la sua opinione, ad esprimere un proprio parere, a rendersi consapevole del proprio bisogno, quello di essere più incisiva e proattiva. Si è inoltre resa conto quanto il comportamento che fino ad ora aveva adottato la allontanasse dal soddisfacimento del suo bisogno, ma che al contrario alimentava la sua paura di ferire gli altri.
Questo è un esempio in cui, nel qui ed ora del gruppo, abbiamo analizzato un aspetto critico ed un disagio, attualizzando responsabilmente la sensazione, la decisione sulla sensazione e l’azione.
ATTUALIZZAZIONE, CONSAPEVOLEZZA, RESPONSABILITÀ, queste le parole chiave della Gestalt.
Quando un corsista, ad esempio, mi dice: “davanti ad un cliente aggressivo, mi arrabbio”, in quel momento egli sta parlando dell’emozione, non dall’emozione. Lavorare con le emozioni significa invece accedere a quell’esperienza, attualizzarla e farne esperienza. Nella pratica d’aula, i momenti in cui si lavora con le emozioni, sono comunque soltanto attimi, dopo che la persona ha realmente percepito il proprio sentire ed agito di conseguenza, la maggior parte del lavoro viene svolto a livello cognitivo dell’emozione.
Come reagiscono le persone a queste metodologie?
Come reagiscono le persone a queste metodologie?
Nel portare avanti questi tipi di attualizzazioni, ogni membro del gruppo lavora. Ognuno entra a sua volta in contatto con le sensazioni che tali fenomeni provocano in lui, e le reazioni sono delle più disparate.
Non nascondo che può capitare che alcune persone reagiscano dicendo: “questo lavoro dovremmo farlo a casa con il nostro terapeuta” oppure “tutto questo sarebbe utile se realmente potessimo agirlo in azienda”. Espressioni di questo tipo possono voler esprimere una forte sensazione di disagio, e significa che abbiamo chiesto troppo alle persone ed al gruppo.
Prima di utilizzare le potenzialità della Gestalt è fondamentale diagnosticare la disponibilità emotiva dei singoli e del gruppo che si crea. A volte i singoli sono disponibili, ma per le relazioni in atto in quel gruppo non rendono possibile il lavoro: legami pregressi, incidenza dei ruoli aziendali.
Si verifica anche il contrario, ossia la presenza di persone poco disponibili emotivamente, che in un gruppo particolarmente affiatato, riescono a passare dallo sfondo del gruppo a figura del gruppo, e partecipare ad attività esperienziali molto significative.
Altre volte all’interno del gruppo, c’è chi risponde emotivamente, ad esempio: “sento rabbia perché anch’io mi trovo spesso in situazioni simili e rivivo ora la medesima sensazione”. Questo significa lavorare sul piano emotivo e parlare dalle emozioni. Spetterà poi al docente direzionare l’individuo alla chiusura della Gestalt, magari dicendogli: “Questo è quello che senti, avresti voluto intervenire? Senti ancora questo stato di disagio? Se si, cosa vuoi adesso?. e in funzione di questo, cosa scegli di fare?”.
La persona viene portata gradualmente e con molto tatto ad esperire nel qui ed ora la propria sensazione, affinché possa chiudere la Gestalt, dandole un senso funzionale al proprio benessere.
Se qualcuno invece non accetta, sottraendosi dal qui ed ora, il formatore può prospettargli la possibilità che il proprio giudizio parta da un piano diverso, forse da una sensazione o da un bisogno celato, su cui eventualmente potrebbe essere utile lavorare. A tale opportunità la persona può rimanere coerente con quanto affermato e con la sua chiusura cognitiva della Gestalt, oppure, può anche essere che a questa difesa o Gestalt incompiuta, segua una decisone di ammettere il proprio stato di disagio e partire da esso per lavorarci.
La differenza è sempre quella: possiamo parlare delle emozioni o possiamo parlare dalle emozioni.
Lavorare con e attraverso le emozioni porta poi a ciò che abbiamo definito un atto creativo, ad una soluzione funzionale a livello organizzativo come personale. Magari è sufficiente cambiare ufficio, prendere un’altra scrivania, far sedere il cliente arrabbiato, concedersi una pausa….
Per accedere ad uno stato di benessere è quindi necessario che il piano cognitivo e quello emotivo siano interdipendenti e funzionali tra loro.
Incoerenza e sensazione di disagio si generano, infatti, nel caso in cui o il cognitivo chiuda in modo incompleto, o l’emotivo apra troppe figure, che poi paralizzano e bloccano l’azione.
È importante premettere che, al di là delle diverse reazioni che si possono verificare, tutto dipende dall’andamento iniziale dell’aula.
Se il formatore ha scelto adeguatamente le esperienze, è stato arguto nel valutare quanto sia coinvolta la responsabilità di chi lavora, e quanto il tema sia gestibile dai partecipanti, il gruppo stesso si dimostrerà maggiormente coinvolto e partecipe.
Altra importante variabile è la durata del corso. Una durata breve, ad esempio di una sola giornata, impone maggiore attenzione ai contenuti; mentre una durata più prolungata, come quella di 3 giorni di corso, permette un lavoro più intenso a livello emotivo-relazionale.
Come affermato precedentemente le reazioni possono essere molteplici e variegate.
Ci sono persone che dimostrano assoluta meraviglia quando lavorano gli altri, ma che, da semplici spettatori, si limitano ad una comprensione cognitiva.
Altre volte invece c’è un netto rifiuto, altre ancora un coinvolgimento attivo.
Anche nel gruppo-aula si verifica lo stare sullo sfondo o lo stare in figura. Chi lavora in figura fa davvero esperienza di cosa significa essere in contatto col proprio sentire e, attraverso il continuum di consapevolezza, accedere alla possibilità delle soluzioni. Chi rimane invece sullo sfondo, senza mettersi in gioco, accede a questo tipo di esperienza a livello cognitivo.
È importante lasciare libere le persone di stare nella posizione che preferiscono, che sentono più comoda. È un tipo di lavoro anche quello nello sfondo del gruppo, mentre lavora un’altra persona come figura: osservando anziché esplorare risorse e imparando anziché sperimentare le possibilità.
Questa scissione, figura-sfondo rispetto la posizione delle persone del gruppo, è meno percepibile nelle drammatizzazioni in cui compaiono più variabili. In genere si verifica quando si lavora sulle situazioni portate dai partecipanti: si parte con una simulazione di un autocaso, caratterizzato non dal qui ed ora, ma dal là e allora. Nel breve si arriva ad attualizzarlo e a riportarlo nel qui ed ora. Da simulazione diventa attività esperienziale.
Ogni membro del gruppo, in questi casi, può rappresentare un protagonista della situazione critica attualizzata. I confini tra la figura e lo sfondo si sfumano gradualmente, la persona può diventare figura o mentre lavora in posizione più secondaria (in ciò che nella simulazione è nello sfondo) può emergere dentro di sé una figura, su cui poi si può lavorare.
Tutti hanno, quindi, la possibilità di agire ed accedere all’insight, ad un’illuminazione che fa cogliere profondamente all’individuo la differenza che sussiste tra il parlare delle emozioni ed esprimersi dalle emozioni.
Se parlo dell’emozione, ad esempio della rabbia, ne parlo a livello cognitivo “quando sono arrabbiato, non so quello che dico…”. Se, nella simulazione che diventa esperienza, invece parlo dall’emozione, ne parlo a livello emotivo, sulla base di quello che sento e che provo nel qui ed ora: ad esempio “non ci vedo più, sto osservando quello che fai e mi sento terribilmente nervoso…”.
Parlando dalle emozioni, ai fini di una relazione autentica con sé e con l’altro, le persone vengono attentamente guidate dal docente, a sperimentare il ciclo della Gestalt attraverso il continuum di consapevolezza.
Quali i benefici che ne traggono? quali i vantaggi per l’azienda?
Quali i benefici che ne traggono? quali i vantaggi per l’azienda?
Quali i benefici che ne traggono a livello personale, di gruppo, di clima.. e quali i vantaggi per l’azienda?
Gli effetti nella vita aziendale possono essere molteplici.
Spesso le persone, dopo giornate formative di questo tipo, si meravigliano di sé , delle proprie reazioni, del loro grado di accettazione di sé e dell’altro, di come vedono e vivono in modo diverso le situazioni quotidiane di disagio o d’empasse.
A volte aumenta la creatività nella soluzione di problemi, oppure si verificano cambiamenti più esistenziali che organizzativi.
Molto positivo è il riscontro che spesso ne deriva per coloro che ricoprono cariche di responsabilità e si trovano a gestire dei collaboratori; essi imparano meglio a delineare lo sfondo, a mettere ordine tra le diverse priorità e rispondere alle emergenze. Per un capo, infatti, è importante imparare a lavorare su una figura alla volta, per non creare disorientamento tra i collaboratori e dare all’azienda una precisa direzionalità.
A livello di clima aziendale il cambiamento dei rapporti tra i collaboratori dipende molto da quanto, a livello organizzativo, questa nuova presa di consapevolezza diviene patrimonio condiviso. Se soltanto una parte del sistema evolve, così come quando solo un membro di una famiglia o di una coppia fa terapia, si crea, all’interno del sistema, uno sbilanciamento. La conseguenza possibile è che la persona, divenendo più consapevole, si senta estraneo ed isolato rispetto al contesto.
Per questo motivo, una formazione di tipo gestaltico si rivela molto utile con i piccoli gruppi, in cui si sviluppa una forte psicologia di comunità e di appartenenza.
Ho lavorato molto in comunità terapeutiche con gruppi di operatori ed assistenti sociali, che, attraverso un percorso continuo di crescita personale e di ruolo, hanno col tempo sviluppato una fortissima coesione ed uno spiccato senso di appartenenza.
Lavorando con piccoli gruppi, si crea infatti una continua tensione al gruppo come insieme di individui tra loro in relazione. Lo sfondo è uno sfondo che vibra, che a sua volta diviene figura, in cui non emergono solo le singole individualità ma le relazioni che tra esse si instaurano.
Per mantenere il focus sulla relazione, il docente dovrà evitare che si verifichi innanzitutto il fenomeno della triangolazione.
La triangolazione è l’effetto relazionale che spesso la drammatizzazione di una figura evoca nel gruppo. A conclusione di un Ciclo della Gestalt su una figura emersa nel gruppo, capita che i membri del gruppo inizino a triangolare, o meglio a fare commenti su quanto osservato rivolgendosi al conduttore - con frasi del tipo. “mi sembra che lui volesse dire…” - piuttosto che assumersi la responsabilità del proprio sentire e rivolgersi direttamente al protagonista della figura. Il principio di responsabilità, infatti, su cui si basa il continnum di consapevolezza, porta ad esprimere l’emozione in una relazione diretta io-tu.
Anche in questo caso il conduttore guida la persona ad assumersi la responsabilità del proprio sentire ed agire, di conseguenza, in termini io-tu. Se il consulente non uscisse dal triangolo diverrebbe il catalizzatore delle varie espressioni cognitive delle sensazioni, ostacolando quindi la presa di consapevolezza dei partecipanti.
Vediamo quindi che, mentre i contenuti sono portati dalle persone, il processo è guidato interamente dal formatore, che parallelamente porta avanti due continuum di consapevolezza (figura-sfondo tra i membri del gruppo e figura-sfondo della figura emersa poi dal gruppo) fino al punto in cui essi si uniscono ed in cui, grazie alla soluzione creativa, il Ciclo della Gestalt si chiude.
Quando un gruppo cooperativo negozia in modo condiviso, ad esempio un ordine del giorno da discutere in riunione, agisce un processo di figura-sfondo
La Gestalt lavora in termini di integrazione e negoziazione tra due polarità: paura-desiderio, energia – rilassatezza, comprensione – incomprensione, accettazione-rifiuto ecc…
Importante è riconoscerle e metterle in relazione dialogica, al fine di creare una con-fusione tra le due.
Spesso quando si lavora con i gruppi (soprattutto se gruppi storici, ma non esclusivamente) significa lavorare nella gestione dei conflitti: diagnosi, riconoscimento, accettazione, espressione, integrazione. I conflitti spesso si esprimono sottoforma di polarità irrigidite, di opposti in opposizione anziché opposti di un continuum. È importante che il docente-counsellor (in questo caso) riservi un equanime interesse verso le due figure che emergono dallo sfondo del gruppo. Il riconoscimento delle polarità ci permette di lavorare sulla loro pienezza, di trattarle come due figure, per ciascuna delle quali si apre un circuito gestaltico fino ad arrivare ad una soluzione creativa, in grado di soddisfarle entrambi.
Il lavoro con la metodologia della sedia calda, questo il nome del processo di riconoscimento e integrazione di due polarità, può essere agito con gruppi di persone, attraverso la gestione di una relazione conflittuale tra due individui, oppure all’interno di percorsi individuali quali counseling, training personale, momenti di outplacement.
In questi ultimi contesti il conduttore guida il singolo a distinguere la polarità di opposti che in lui convivono e che generano criticità, per arrivare poi ad una soluzione creativa che le abbraccia entrambi.
Anche in contesti di gruppo, quando si creano conflitti tra due persone, il formatore guida ciascuno a portare avanti il proprio continuum di consapevolezza, affinché le due polarità, guardandosi e rispettandosi reciprocamente, possano dar vita ad una relazione più autentica ed evolutiva.
Tale metodologia quali strumenti rilascia alle persone per lavorare meglio in azienda?
Tale metodologia quali strumenti rilascia alle persone
R: Non si tratta di metodologie e strumenti precisi ma una vera e propria tensione ad assumersi la propria responsabilità e rimanere costantemente aperti al mondo delle possibilità. Come nella PNL anche in Gestalt uno degli insegnamenti basilari è dato dalla possibilità e dalla volontà di SPERIMENTARE.
Sperimentare da tutto, dall’ambiente esterno, dal nostro mondo emotivo ed anche dal nostro corpo.
È infatti inevitabile che la consapevolezza delle proprie sensazioni, passi anche attraverso il livello di congruenza tra linguaggio verbale e non verbale.
Una volta durante l’apertura di un’aula mi è capitato che uno dei corsisti, mentre a parole affermava che era contento di trovarsi in aula e che i contenuti trattati sarebbero stati utili per la vita professionale e personale di ciascuno, a livello comportamentale, ruotava il piede della gamba accavallata disegnando in aria dei cerchi.
Premesso che il linguaggio analogico non ha una decodifica universale, molto spesso esso è metafora delle sensazioni interne, la sensazione che arrivava a me, formatore, era che il mio interlocutore fosse in realtà estremamente scocciato di essere ancora una volta all’interno di un’aula di formazione, e che con il movimento del piede volesse in realtà dire: “siamo ancora qui, a rifare le stesse cose…”.
Una volta avviatosi il corso e creatosi la confidenza necessaria all’interno del gruppo, ho fatto notare questa mia sensazione alla persona, che ha poi riconosciuto ed ammesso la sua iniziale sensazione.
Stare quindi in contatto con i segnali del corpo, nostro e altrui, ci aiuta a renderci maggiormente consapevoli di quali siano le sensazioni che vi albergano.
L’insegnamento ad un livello superiore che ne deriva, al di là dell’importanza della congruenza tra i diversi piani comunicativi, è la capacità e la volontà ad apprendere sempre di più da se stessi e di se stessi: questo significa sperimentare.
In quali contesti si applica tale metodologia?
In quali contesti si applica tale metodologia?
R: Oltre che nei lavori individualizzati, come abbiamo visto precedentemente, si applica all’interno dei gruppi di formazione per tematiche quali gestione dello stress, prevenzione o cura del burn out, gestione del conflitto, problem solving, lavoro di gruppo, leadership, negoziazione, relazione con il cliente, gestione dei reclami ecc….
L’aula diviene quindi il luogo funzionale per l’apprendimento su campo di una metodologia trasversale ad ogni situazione: sia che si tratti del singolo in contatto con il suo sfondo interiore (corsi individualizzati), sia che si tratti del singolo all’interno di una rete di relazioni di gruppo (supervisione al lavoro di gruppo ed alle dinamiche).
A conclusione di questa generale panoramica sulla Gestalt, vorrei citare una metafora che penso racchiuda in sé alcuni dei più importanti principi di questa teoria:
- la relazione figura-sfondo
- la relazione io-tu
- l’importanza di chiudere la figura (Ciclo della Gestalt)
- il qui ed ora
- le polarità
- la responsabilità
- l’attualizzazione
- l’espressione delle emozioni
- il continuum di consapevolezza
- il contatto autentico con le proprie sensazioni